Doomshakalaka!
Nel 1993 il multiplayer online nei videogiochi era un casino, ma Doom questo non lo sapeva e lo fece comunque, contribuendo a creare quasi dal niente un nuovo settore
Amici miei, fa caldo, caldissimo, ma DA DV DGT? è ancora qua per darvi il vostro zuccherino di cultura retrointernettiana. Oggi parliamo di videogiochi, quindi non fate quelle facce, che tanto lo so che negli anni ‘90 giocavate pure voi, anche se non lo dicevate in giro. E se non lo facevate vi siete persi delle grandi esperienze, tipo DOOM
Finora avevo girato attorno all’argomento ma è tempo di mordere quella succulenta torta chiamata “il rapporto tra la prima internet e i videogiochi” e quel dolce non può che avere la forma del fucile a pompa di Doom.
Ho scritto di Doom più di quando abbia scritto di molte altre cose e ogni volta mi diverto come se fosse la prima, perché Doom non fu il primo gioco in soggettiva, non fu il primo gioco a sfruttare internet ma fu quello che più di tutti fu in grado di incanalare lo spirito del tempo, la visione del mondo di un gruppo di ragazzi che nel 1993 erano cresciuti tra heavy metal, computer, Dungeon & Dragons e i primi passi della Rete.
Per chi avesse vissuto in un barile di piombo negli ultimi trent’anni, non avesse mai giocato a Doom e non lo conoscesse neppure per osmosi, parliamo di un gioco in cui vestiamo i panni di un marine che si trova in una base marziana invasa da demoni infernali. Tutto ciò che dobbiamo fare in Doom è collezionare armi, armature, medikit e chiavi d’accesso per arrivare alla fine del livello, eliminando ogni minaccia che ci si para di fronte.
Seguendo l’assunto di John Carmack, lo sviluppatore che rese possibile Doom scrivendo un motore grafico incredibile per quegli anni “La trama in un videogioco, è come la trama in un film porno. Ti aspetti che ci sia, ma in fondo non serve a niente” che è un’emerita cazzata, ma allo stesso tempo una cosa assolutamente vera, dipende dal videogioco che vuoi fare.
In quel contesto era il trionfo del come sul cosa, del bisogno di mostrare una grafica velocissima e spettacolare, incorniciata da una musica martellante in cui il pretesto per farti fare un massacro era, appunto, solo un pretesto. Qualcosa di molto simile, se vogliamo, al cinema fatto prevalentemente di immagini in movimento di Mad Max. Non voglio dilungarmi sugli affascinanti aspetti riguardanti lo sviluppo del gioco, l’importanza del suo arrivo, le polemiche sulla violenza e il lascito culturale enorme, ma raccontarvi uno dei punti chiave del suo successo: internet.
Nel 1993 Nintendo e Sega si contendono gran parte del mercato, da una parte abbiamo Super Nes e Game Boy, dall’altra il Megadrive. Sony è a dodici mesi dal lancio della prima PlayStation in Giappone che arriverà da noi quasi un anno dopo. Sul fronte PC l’Amiga è a un anno dal fallimento, ma è ancora il paradigma del personal computer perfetto anche per giocare, i PC stanno iniziando finalmente a uscire da un guscio di grafiche bruttine e sonoro gracchiante.
La differenza tra i titoli per computer e console e palese, i secondi sono clamorosamente più veloci, non così lontani da ciò che trovi in sala giochi. Dal punto di vista della distribuzione, tutto è affidato a negozi di quartiere e poche grandi catene, anche perché l'accesso a Internet avviene per la maggior parte degli utenti tramite modem abbastanza lenti e non esiste ancora un World Wide Web. Ci sono email, sistemi come Gopher, Telnet, le Bulletin Board e, lato gioco, qualche occasionale MUD, i multi user dungeon testuali, ma poco altro.
Sotto la cenere, tuttavia, cova una comunità hardcore online che sta già scambiando informazioni e, cosa più importante, file, una rete di distribuzione online embrionale.
Apogee, la compagnia che ha supportato lo sviluppo di Doom, di Wolfestein 3D e di molti altri giochi ha già da tempo adottato un sistema di distribuzione che sfrutta questo nuovo strumento con una formula chiamata in molti modi in base ad alcune piccole differenze: freeware, shareware, user-supported-software. Il principio è: io programmatore ti offro il mio prodotto in forma gratuita, con eventuali limitazioni di tempo o con alcune funzioni in meno, così che tu possa provarlo e poi pagarmi. È una formula che col tempo è stata più volte abbandonata e ripresa in base alle mode del momento e ai sentimenti del pubblico.
Scott Miller, capo della Apogee ed ex sviluppatore di videogiochi, declina lo shareware sul modello del bastone e della carota o, se preferite, quello del pusher: offre gratuitamente un pezzo del gioco completo e perfettamente funzionante dall’inizio alla fine. Se vuoi gli altri capitoli devi spedire un assegno.
Questo modello influenzò lo sviluppo prima di Wolfenstein 3D e poi di Doom perché portava gli sviluppatori a spezzettare il gioco in capitoli che fossero strutturalmente coerenti tra di loro, ma anche interconnessi. Dovevi dare al giocatore abbastanza soddisfazione per portarlo alla fine della parte gratuita, senza lasciarlo troppo frustrato da eventuali mancanze ma neanche troppo soddisfatto da non spingerlo all’acquisto. Non erano demo, non erano giochi azzoppati, erano titoli completi, ma in cui sapevi che c’era altro che ti aspettava dietro una somma modesta.
Un po’ come i romanzi di appendice di una volta o le riviste che pubblicavano i racconti di Conan Doyle, Lovecraft e gli altri, ma col primo numero gratis. L’obiettivo era solo quello di far provare il gioco al maggior numero di persone possibili, tanto che Apogee aveva concesso ai negozianti di vendere liberamente i primi livelli di Doom messi su dischetto a 9,99 dollari e tenersi tutti i soldi.
Doom si inserì in questo contesto con un tempismo incredibile, capitalizzando l’ascesa delle comunità online, il successo dell’Heavy Metal, i riferimenti pop de La Casa, Aliens e altri film simili, il bisogno della scena PC di giochi sempre più belli e spettacolari che rivaleggiassero con le console. Era l’opera giusta al posto giusto.
I giorni che precedettero il lancio di Doom furono caratterizzati da una frenesia ai limiti del fanatismo. I giocatori che frequentavano le bacheche online dedicate al gioco, bacheche lette e frequentate dagli sviluppatori stessi e primo grande esempio di disintermediazione del settore, erano popolate di minacce, preghiere, poesie e messaggi di supporto. Anche perché id Software aveva bucato la prima data, nonostante Carmack, Romero e soci avessero speso tutto il tempo utile della loro vita di fronte a PC, dormendo spesso per terra e fermandosi solo per i bisogni e un morso di pizza.
Venerdì 10 dicembre, dopo 30 ore consecutive di test, il gioco era pronto per andare non sugli scaffali, ma su internet. David Datta, l’amministratore di rete dell’Università del Wisconsin, aveva concesso il proprio spazio per ospitare la prima versione del gioco, con l’idea che poi sarebbero stati i giocatori stessi a scaricarla e distribuirla ovunque, rendendolo Doom un successo basato sul file sharing in piena etica hacker.
C’era un problema però: Datta non poteva entrare nei pur capienti server universitari perché erano intasati dai fan che aspettavano da ore, chattando e speculando sul canale IRC dedicato al gioco, aggiornando continuamente la pagina dell’FTP universitario e riempiendolo di file di testo vuoti dal titolo QUANDO ARRIVA DOOM?.
L’unica soluzione fu implorare via chat i giocatori di lasciare il server per permettere l’upload dei file e un’istante dopo la richiesta quello che un attimo prima era una piazza vociante di nerd in attesa si trasformò in una chiesa vuota e silenziosa in attesa della sua liturgia.
Dopo mezz’ora, quando l’ultimo frammento di Doom raggiunse i server del Winsconsin, si scatenò il putiferio. Decine di migliaia di persone presero d’assalto il server facendolo crashare più volte i computer connessi, i server, gran parte della rete. Doom si diffuse con un virus, infettando il tempo e le menti di moltissima gente che iniziò a distribuirlo e a giocarci dedicandogli sempre più tempo, finché non iniziarono a spuntare i divieti di farlo per non far crollare il tessuto sociale di aziende e università.
E se Doom era una esperienza unica in single player, in multiplayer rischiava seriamente di diventare una ossessione totalizzante. La cosa buffa è che le funzionalità mutliplayer furono abbozzate solo verso la fine dello sviluppo. L’idea piaceva a Romero e ad altri sviluppatori che ne erano ossessionati, e lo stesso vale per la modalità cooperativa, ma come più volte dichiarato dai due John, il gioco non era pensato per quello, non era bilanciato in tal senso e bisognò correrei ai ripari con aggiornamenti e con i titoli successivi.
Eppure l’idea di poter sfidare qualcuno era troppo, troppo ghiotta e non era mai stata realizzata con questa intensità. Il primo FPS riportato nella maggior parte dei libri di storia, MIDI Made (1987) era già un titolo multiplayer competitivo e il nome “deathmatch” compare in Triple Action Biplanes del 1081 ma Doom aggiunse a questi elementi infiniti livelli di complessità e velocità. Non si trattava solo di eliminare uno o più avversari ma di tenere conto di munizioni, spazio, salute, potenziamenti, oggetti, barili esplosivi, pozze d’acido, posizionamento nella mappa. Anzi, all’inizio gli oggetti non respawnavano neppure. Era insomma di più, molto di più e per giocarci la gente poteva sfruttare le aule d’informatica dei campus, se era fortunata, oppure si portava il computer a casa di amici o a eventi appositi per collegare fisicamente i computer e giocare in LAN.
Doom arriva prima di qualunque tipo di concetto ormai banale per il multiplayer, giocarci online era un gesto eroico non diverso da quello di caricare un gioco su cassetta nel Commodore 64. Niente hub per i giocatori, niente elenco server, lista amici, niente reti ad alta velocità, niente servizi dedicati, niente matchmaking. Se volevi giocare con qualcuno dovevi organizzare la cosa via chat e digitare alcune stringhe di codice in modo che i due modem dialogassero tra di loro, con la costante minaccia di disconnessioni, lag e rallentamenti. Ma era qualcosa di così bello, unico e potente che ne valeva la pena.
Per questo motivo ben presto nacquero dei servizi a pagamento per giocare online in maniera un po’ più semplice. L’interregno tra Doom e Doom II vide l’arrivo di DWANGO (Dial-up Wide-Area Network Game Operation) che nel 1994 offriva un sistema di stanze virtuali per giocare a Doom, poi Heretic e infine Doom II. Dwango fu creata nel 1994 da Bob Huntley e Kee Kimbrell, leggenda vuole che i due abbiano proposto l’idea a Carmack e Romero spacciandosi per due partecipanti a uno dei primi tornei ufficiali e avvicinandoli nel backstage. Carmack disse che non era interessato, Romero invece, che era in fissa da Deathmatch gli diede una possibilità.
Per usare Dwango i giocatori dovevano comporre un numero a Houston, ma il sistema era così comodo che in tanti preferivano una interurbana al dover cercare qualcuno online da soli. Inizialmente il servizio costava 1,95 dollari l’ora, ma nel 1995 passò a 8,95 al mese ed esplose definitivamente, anche grazie a una delocalizzazione sempre maggiore dei server. Presto il sistema si trasformò in un franchising: pagavi 35.000 dollari l’anno per un server e ti tenevi il resto dei profitti, questo portò alla creazione di 22 server e all’espansione in Giappone e Corea.
Poco dopo uscira Quake, che renderà il gioco online parte del suo “manifesto programmatico” e contribuirà a creare una scena competitiva in cui un ragazzino neanche maggiorenne chiamato Danny “Tresh” Fong può vincere la Ferrari di Carmack senza neppure avere la patente.
Sono gli anni in cui il gioco online crescerà fino a diventare qualcosa di sempre più vero, tangibile, reale, con i suoi eroi, le sue sconfitte e i suoi momenti da Hall of Fame, ma la storia degli esport (che non sempre coincide con la storia di internet, ma ne è senza dubbio influenzata) merita un capitolo a parte, in cui però l’arrivo di Doom resta uno dei momenti più importanti, un salto quantico, uno dei quei momenti in cui arriva qualcosa che non esisteva fino a un secondo prima e che cambia completamente le regole del gioco.
Signori, con questa mail DA DV DGT? va in ferie fino a Settembre, oppure ricomincerà un po’ prima, dipende dagli impegni, voi continuate a volervi bene, che internet è già abbastanza piena di gente che non lo fa. Ci si legge su N3rdcore, ci si vede su Twitch! Buona Estate!