Geocities, storie dal vicinato
Come l'intuizione di regalare 15MB di spazio online a tutti ha permesso a milioni di persone di esprimersi, popolare la rete di orribili gif animate e creare comunità online che durano ancora oggi.
Ciao tutti e benvenuti alla seconda puntata di DA DV DGT? La newsletter dell’internet che era. Mi scusa per il ritardo, ma è incredibile le cose che devi fare quando pensi di avere più tempo libero perché lavori meno.
Oggi parliamo di una cosa bella, mettetevi comodi.
Quale sforzo ci è richiesto oggi per lasciare un segno della nostra presenza su internet? È un gesto talmente banale che ci vuole più sforzo a scrivere il nostro nome sul muro. Quale sforzo era richiesto per fare la stessa cosa a metà degli anni ’90? Era come possedere un pezzo di cielo, un gesto simbolico dal potenziale, infinito, che spesso richiedeva una certa abilità.
L’unica cosa in comune? Oggi come allora riempiamo internet di contenuti imbarazzanti. Ma molti di quelli che oggi scrivono, e tanti di quelli che per fortuna non lo fanno più, hanno iniziato su Geocities, una delle prime compagnie a offrire spazio gratuito su internet per creare il proprio sito personale.
L’idea di Geocities venne a David Bohnett e John Rezner dopo aver aperto nel 1994 una compagnia chiamata Beverly Hills Internet (che nome bellissimo!) che altro non era che l’ennesimo provider di connessione in mezzo a tanti altri. Erano anni in cui “internet” era una sorta di oggetto misterioso in cui pensavi di poter investire, come il petrolio, la canna da zucchero o un’attività commerciale. Bohnett aveva sentito parlare di questa fantomatica internet leggendo una rivista su un aereo e aveva deciso che doveva essere in prima linea dentro qualcosa che stava diventando grosso.
Dopo il primo anno di attività Bohnett e Rezner pensarono di attrarre nuovi clienti regalando homepage personali e 15 MB di spazio. Una sola foto che oggi scattate col telefono per l’ennesimo selfie probabilmente non ci sarebbe entrata e chi l’avesse voluta vedere avrebbe dovuto aspettare una mezz’ora buona per vederla caricare, ma all’epoca era come avere una villa vuota da arredare con tutte le giffine e gli sfondi più brutti che la mente umana potesse concepire.
Ma tanti all’epoca offrivano uno spazio gratuito, quale fu il colpo di genio che rese Geocities il quarto sito più importante del mondo nel 1997? La risposta è nel nome: le città. Quando ti iscrivevi a Geocities potevi scegliere il quartiere in cui abitare, che altro non era che la categoria del tuo sito. Dentro “Hollywood” trovavi siti e appassionati di cinema, in “Area 51” ecco comparire gli amanti della fantascienza e degli alieni, a “SoHo” gli artisti e così via.
La figata era tutta là, nel momento in cui ti arrivava la mail di conferma, inserivi la password ti trovavi di fronte a una mappa in cui scegliere il tuo quartiere, la tua subcultura di appartenenza. “Ecco, io vivo qua, questa è la mia casa su internet”.
I siti non erano solo raggruppati per argomenti e passioni, c’era una vicinanza fisica, di quella fisicità di cui ancora era intrisa internet quando pensavamo che il futuro sarebbe stato il “cyberspazio” di Tron e degli hacker del cyberpunk. Quando aprivi in sito ne avevi uno alla tua destra e uno alla tua sinistra, poi c’erano i siti più letti, i nuovi arrivati e così via. Algoritmi? Non pervenuti.
Questa soluzione si rivelò una manna sia per i visitatori che per produttori di contenuti. Da una parte finalmente avevi un luogo dove curiosare in base ai tuoi interessi (ricordatevi che i motori di ricerca dell’epoca, quando c’erano, si basavano ancora in buona parte sull’inserimento quasi manuale dei siti nel loro indice) dall’altra i visitatori in molti casi arrivavano semplicemente grazie alla vicinanza con altri spazi che trattavano lo stesso argomento.
Tutto iniziò con una mail di Bonnet a parenti e amici in cui segnalava la possibilità di iscriversi, qualche mese dopo centinaia di persone stavano popolando la città virtuale della Beverly Hills Internet, che cambiò nome in Geocities per essere più in linea coi servizi offerti.
Dopo un po’ arrivò la pubblicità, che fece incazzare gli utenti, ma permise al servizio di prosperare e di venire comprato nel 1999 da Yahoo, che lo chiuse 10 anni dopo, tuttavia, non siamo qua per seppellire Geocities, ma per lodarlo, perché Geocities fu una avanguardia culturale, un esempio di espressione umana, le pitture rupestri di una caverna che oggi è una villa.
Democratizzando l’accesso a uno spazio su Internet Geocities permise a molte persone di esporre per la prima volta sé stessi e le proprie passioni di fronte a una platea potenzialmente sconfinata. C’erano due modi di approcciare questa cosa: o creavi un sito dedicato ai tuoi interessi, magari a quell’interesse specifico che ti caraterizzava, tipo una fan page sui Queen con tutti i testi scritti a mano con pazienza certosina o collezionando le foto di quell’attore che amavi, oppure imbastivi un sito personale o per il tuo lavoro. Uno spazio dove dire “Questo sono io, questo è ciò che amo, questa è la mia auto nuova, ti va di lasciare un messaggio nel mio guestbook?”.
Perché farlo? Perché potevi, per il brivido di avere quattro mura virtuali in cui mostrarti in quello che è stato uno dei primi esempi di social network.
Ovviamente la maggior parte di queste espressioni erano elementari e rozze, perché per creare qualcosa di decente bisognava conoscere almeno le basi del linguaggio html e gli strumenti dell’epoca non consentivano molto. I contenuti poi erano imbarazzanti, ingenui, spesso scopiazzati in giro. Era come aprire a caso la pagina del diario di un liceale (ma di questo parleremo meglio quando arriverà il turno di MySpace).
Ma in un’epoca che ancora non aveva imparato il concetto di “cringe” e non sapeva cosa fosse l’ironia postmoderna, tutto andava bene. Fu solo dopo i primi anni 2000 che Geocities iniziò a diventare sinonimo di spazzatura, al pari delle immagini dei buongiornissimi che gli over60 condividono non ironicamente.
Non c’era alcun metro di giudizio per valutare ciò che veniva fatto, nessuno ti avrebbe preso in giro per il tuo sitarello che oggi ci appare ingenuo, buffo e ridicolo, perché visto con gli occhi di chi può comprarsi un template di Wordpress che lo farà apparire come un professionista del web design.
Anche perché le grandi compagnie in quel periodo si muovevano con la stessa incertezza e giusto qualche accorgimento in più. Basta vedere com’era il sito promozionale di Space Jam.
Col tempo, la goffa accozzaglia di bottoni da premere, counter delle visite, colori messi a caso e impaginazioni brutali diventò una vera e propria cifra stilistica. Una sorta di pop art che condivideva una serie di canoni dettati dai propri limiti. Per fortuna, molto di quel materiale e ancora disponibile, e se volete fare quattro passi tra le sale di questo museo virtuale da cui ho tratto le foto potete farlo, magari ritrovate il vostro primo sitarello.
Il valore di Geocities è incalcolabile, è stato per anni uno reperto storico e sociologico, un archivio della produzione letteraria dei non appartenenti alle elite, l’archivio delle vite di milioni di persone, ma non solo.
Tra le migliaia di siti orribili, paginette personali, testi scopiazzati, gif di bambini che ballano e foto sgranate di quegli anni nacquero anche comunità fortissime di appassionati di scrittura, amanti delle fanfiction e i primi passi di una generazione di creatori di contenuti.
Uno di questi era Brandon Stanton, che su Geocities aprì uno spazio in cui metteva foto degli abitanti di New York, corredate da una piccola biografia. Il sito si chiamava Humans of New York, vi dice qualcosa? Dovrebbe, perché oggi è uno dei progetti fotografici più famosi al mondo, con tanto di libro pubblicato.
La sincronicità delle cose ha voluto che Stanton un giorno si sia trovato di fronte a un tizio mai visto prima e gli ha chiesto di raccontargli la propria storia.